Citazione:
Piazza Navona
Se pò ffregà Ppiazza Navona mia
e dde San Pietro e dde piazza de Spagna!
cuesta non è una piazza, è una campagna,
un teatro, una fiera, un allegria.
Va dd'a la Pulina ra a la Corzia,
curri da la Corzia a la Cuccagna:
pe' tutto trovi robba che sse maggna,
pe' tutto ggente che la porta via.
Cqua cce so ttre ffuntane inarberate:
cqua una gujja che ppare una sentenza:
cqua se fa er lago cuanno torna istate.
Cqua ss’arza er cavalletto che ddispenza
sur culo a cchi le vò ttrenta nerbate,
e ccinque poi pe la bbonifiscenza.
Citazione:
Una lingua nova
Cuer Giammaria che tt’inzurtò a Ttestaccio,
e mmo assercita l’arte de la spia,
passava mercordí dda Pescaria
co ttanto de tortore sott’ar braccio.
Ner travedello, io che nun zo che ssia,
ma nu lo pòzzo sscerne cuer mustaccio,
arzo un zercio da terra, e ppoi jje faccio:
"A la grazzietta padron Giammaria".
"Chi è?" ddisce svortannose er gabbiano:
e, ppunf, in ne li denti io je rispose
co cquer confetto che ttienevo in mano.
"Nun ve pijjate pena de ste cose",
dico "perché cquest’è, ssor paesano,
la lingua de parlà co le minose".
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Un giorno di gennaio dell'anno 1941, un soldato tedesco di passaggio, godendo di un pomergiio di libertà, si trovava, solo, a girovagare nel quartiere di San Lorenzo, a Roma. Erano circa le due del dopopranzo, e a quell'ora, come d'uso, poca gente circolava per le strade. Nessuno dei passanti, poi, guardava il soldato, perché i Tedeschi, pure se camerati degli Italiani nella corrente guerra mondiale, non erano popolari in certe periferie proletarie. Né il soldato si distingueva dagli altri della sua serie: alto, biondino, col solito portamento di fanatismo disciplinare, e, specie nella posizione del berretto, una conforme dichiarazione provocatoria.
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Da Monteverde Vecchio ai Granatieri la strada è corta: basta passare il Prato, e tagliare tra le palazzine in costruzione intorno al viale dei Quattro Venti: valanghe d’immondezza, case non ancora finite e già in rovina, grandi sterri fangosi, scarpate piene di zozzeria. Via Abate Ugone era a due passi. La folla giù dalle stradine quiete e asfaltate di Monteverde Vecchio, scendeva tutta in direzione dei Grattacieli: già si vedevano anche i camion, colonne senza fine, miste a camionette, motociclette, autoblinde. Il Riccetto s’imbarcò tra la folla che si buttava verso i magazzini.
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La bizzarria del caso, lo spettacolo della notte nivale, il mistero, l’incertezza gli accendevano l’immaginazione, lo sollevavano dalla realtà. Splendeva su Roma, in quella memorabile notte di Febbraio, un plenilunio favoloso, di non mai veduto lume. L’aria pareva impregnata come d’un latte immateriale; tutte le cose parevano esistere d’una esistenza di sogno, parevano immagini impalpabili come quelle d’una meteora, parevan esser visibili di lungi per un irradiamento chimerico delle loro forme. [...] Un orologio suonò da presso, nel silenzio, con un suono chiaro e vibrante; e pareva come se qualche cosa di vitreo nell’aria s’incrinasse a ognun dei tocchi. L’orologio della Trinità dei Monti rispose all’appello; rispose l’orologio del Quirinale; altri orologi di lungi risposero, fiochi.
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Roma splendeva, nel mattino di maggio, abbracciata dal sole. Lungo la corsa, una fontana illustrava del suo riso argenteo una piazzetta ancor nell’ombra; il portone d’un palazzo mostrava il fondo d’un cortile ornato di portici e di statue; dall’architrave barocco d’una chiesa di travertino pendevano i paramenti del mese di Maria. Sul ponte apparve il Tevere lucido fuggente tra le case verdastre, verso l’isola di San Bartolomeo. Dopo un tratto in salita, apparve la città immensa, augusta, radiosa, irta di campanili, di colonne e di obelischi, incoronata di cupole e di rotonde, nettamente intagliata, come un’acropoli, nel pieno azzurro. – Ave, Roma. Moriturus te salutat – disse Andrea Sperelli.
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L’orologio battè le quattro. Giungeva dalla piazza di Spagna e dal Pincio il romore delle vetture. Molta gente camminava sotto gli alberi, d’innanzi alla Villa Medici. Due donne stavano sul sedile di pietra sotto la chiesa, a guardia di alcuni bimbi che correvano intorno l’obelisco. L’obelisco era tutto roseo, investito dal sole declinante; e segnava un’ombra lunga, un po’ turchina. L’aria diveniva rigida, come più s’appressava il tramonto. La città, in fondo, si tingeva d’oro, contro un cielo pallidissimo sul quale già i cipressi del Monte Mario si disegnavan neri.
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È così che pesa Roma, ma con un peso sensibile e leggero, la si porta sul cuore come un corpo di fontane, di giardini e di cupole, si respira sotto di lei, un po’ oppressi ma stranamente felici. Questa città relativamente piccola, ma le cui prospettive aeree esplodono a volte a un angolo di strada... dopo tanti anni in una città senza luce, e tanti risvegli nella nebbia, mi nutro senza posa di questa linea di alberi e cieli che dalla Porta Pinciana arriva sino a Trinità dei Monti, e dietro la quale Roma srotola le sue cupole e il suo disordine… e poi quel colle meraviglioso del Palatino di cui nulla sciupa il silenzio, la pace, un mondo sempre nascente e perfetto, cominciavo a ritrovare me stesso… lo si sente sulla Via Appia, dove, pur essendo arrivato nel tardo pomeriggio, mi sentivo, passeggiando, con il cuore talmente pieno che in quel momento sarei potuto morire... splendida mattinata a Villa Borghese. La luce delle mattine d’Algeria che scivola tra gli aghi sottili dei pini e li taglia uno dopo l’altro…quando si è visto tutto, o almeno tutto ciò che era possibile vedere, passeggiare senza sforzarsi di sapere è una felicità perfetta… Moravia mi aveva già parlato del Caravaggio uomo… la luce di Roma è invece rotonda, brillante e morbida. Fa pensare ai corpi… la sera vedo Moravia”
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… e solo quando passai sotto la Porta del Popolo seppi per certo che Roma era mia… l’ansia di giungere a Roma era così grande, aumentava tanto di momenti in momento, che non avevo tregua… ma confessiamolo, è una dura e contristante fatica quella di scovare pezzetto per pezzetto, nella nuova Roma, l’antica; eppure bisogna farlo, fidando in una soddisfazione finale impareggiabile. Si trovano vestigia di una magnificenza e di uno sfacelo che superano, l’una e l’altro, la nostra immaginazione. Ciò che hanno rispettato i barbari, l’han devastato i costruttori della nuova Roma. Quando si considera un’esistenza simile, vecchia di duemila anni e più, trasformata dall’avvicendarsi dei tempi in modi così molteplici e così radicali, e si pensa che è pur sempre lo stesso suolo, lo stesso colle, sovente perfino le stesse colonne e mura, e si scorgono ancora nel popolo tracce dell’antico carattere, ci si sente compenetrati dai grandi decreti del destino… e da quest’immensità emana su di noi un senso di pace mentre corriamo da un capo all’altro di Roma, per conoscere i massimi monumenti. In altri luoghi bisogna andare a cercare le cose importanti: qui se n’è schiacciati, riempiti a sazietà. Si cammini o ci si fermi, ecco che appaiono panorami d’ogni specie…”.
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Sarà perché vengo dall’Oriente o perché sono di umore irritabile, ma Roma mi ha dato un’impressione di piattezza. Piatta da dare oppressione. Malgrado ciò non ho dormito un minuto, la notte scorsa. Il Tevere è un canale che cola giallo zafferano… ho pensato a Shelley. Certo qui aumentò la sua ispirazione. Corrisponde alla sua concezione drammatica, al suo stato d’animo… a mezzogiorno ero a Villa Borghese. Distesa di prati, l’inconfondibile odore dei giardini italiani, cespugli fittissimi, un freddo splendore, da villa, Venere e Cupido, lo sguardo traditore di Cupido...
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21 Aprile 1829
Domani con gran rimpianto, lasceremo Roma. Andremo a Venezia: questa estate passeremo quindici giorni ai bagni di Lucca e un mese a quelli deliziosi della Battaglia, vicino Padova. Solo in questi luoghi così piacevoli gli italiani dimenticano la loro paura ed il loro odio. La nomina del cardinale Albani comincia a produrre le prime conseguenze. Questa mattina in venti luoghi di Roma, fin sulla porta del palazzo di Montecavallo ove risiede il papa, sono state trovate delle scritte tracciate col gesso, a lettere enormi: Siam servi sì, ma servi ognor frementi Vittorio Alfieri
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Er tisico
Cuesto oggnuno lo sa: ppila intronata
va ccent’anni pe ccasa: e tte l’ho ddetto.
Mó mm’accorgio però cch’er poveretto
sta vviscino a ssonà lla ritirata.
Già ffin dar tempo che sposò Nnunziata
le scianche je fasceveno fichetto;
e ffinarmente s’è allettato a lletto
perch’era ppiú ll’usscita che ll’entrata.
Nun tiè ppiú ffiato da move le bbraccia:
e cchi lo va a gguardà ssu cquer cusscino,
je vede tutta Terrascina in faccia.
Io metterebbe er collo s’un quadrino
che nnu la cava: e ggià la Commaraccia
secca de Strada-Ggiulia arza er rampino.
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"From Santi's earthly tomb" ripeté Langdon tra sé e sé. Il primo verso era chiarissimo. Il Cammino dell'Illuminazione cominciava dalla tomba di Santi. Da lì, attraverso Roma, si snodava il resto del percorso.
Dalla tomba terrena di Santi con il buco del demonio, Attraverso Roma si snodano gli elementi mistici."Gli elementi mistici." Anche questo era chiaro. "Terra, Aria, Fuoco, Acqua." Gli elementi della scienza, i quattro indizi degli Illuminati nascosti in opere d'arte apparentemente sacra. «Il primo indizio sembrerebbe essere la tomba di Santi» disse Vittoria. Langdon sorrise. «Te l'ho detto che non era così difficile.» «Sì, ma chi è Santi?» domandò lei. «E dov'è la sua tomba?» Langdon rise tra sé e sé.
Era sorprendente quante poche persone sapessero che Santi era il cognome di un grande artista del Rinascimento, più noto con il suo nome di battesimo... Ragazzo prodigio, a venticinque anni lavorava già per papa Giulio II e alla sua morte, avvenuta a soli trentasette anni, lasciò alcuni fra i maggiori capolavori di tutti i tempi. Insomma, un mostro sacro nel mondo dell'arte. Del resto, essere conosciuti con il nome di battesimo era un privilegio di pochi, a parte Napoleone, Galileo, Gesù... oltre, naturalmente, ad alcuni idoli moderni che Langdon sentiva strepitare spesso nei dormitori di Harvard, come Sting, Madonna, Jewel e Prince, che aveva adottato il simbolo e che Langdon aveva perciò soprannominato "la croce a tau attraversata dal simbolo ermafrodita Ankh". «Santi è il cognome di un grande maestro del Rinascimento » spiegò Langdon. «Che di nome faceva Raffaello.»
Vittoria sembrò sorpresa. «Raffaello? Ma non si chiamava Sanzio?» «Sanzio, o Santi.» Langdon continuò a camminare verso la caserma della Guardia Svizzera. «Allora, il Cammino dell'Illuminazione parte dalla tomba di Raffaello?» «È logico, se ci pensi» disse Langdon, mentre proseguivano a passo spedito. «Gli Illuminati si consideravano spiriti affini di molti grandi pittori e scultori. Potrebbero quindi aver scelto la tomba di Raffaello per rendergli omaggio.» Langdon sapeva che Raffaello era stato sospettato di ateismo, come peraltro molti altri autori di opere di arte sacra. Vittoria rimise il foglio del Diagramma nella tasca di Langdon, facendo molta attenzione.
«E dov'è sepolto Raffaello?» Langdon trasse un respiro profondo. «Non ci crederai, ma è sepolto nel Pantheon.» Vittoria sembrava scettica. «Nel Pantheon?» «Sì.» Effettivamente neanche lui si aspettava che il Cammino dell'Illuminazione iniziasse dal Pantheon. Si era immaginato che il primo Altare della Scienza fosse in un luogo più tranquillo, una chiesa più fuori mano, meno in vista. Invece il Pantheon, con la sua enorme cupola aperta, era uno dei monumenti più noti di Roma già nel Seicento. «Ma il Pantheon è una chiesa?» chiese Vittoria.
«Sì, la più antica di Roma. In origine era un tempio pagano, riconsacrato però nel 608 al culto della Madonna.» Vittoria scosse il capo. «Credi davvero che il primo cardinale verrà ucciso lì? Il Pantheon dev'essere una delle mete turistiche più visitate di tutta Roma.» Langdon si strinse nelle spalle. «Gli Illuminati hanno detto che vogliono attirare l'attenzione. Uccidere un cardinale nel Pantheon farebbe di certo parlare tutto il mondo.» «Ma come fa questo tizio a pensare di uccidere qualcuno al Pantheon e di potersela squagliare senza essere visto? È impossibile. » «Sì, ma come lo è rapire quattro cardinali nella Città del Vaticano. La poesia parla chiaro.» «Ma sei sicuro che Raffaello sia sepolto nel Pantheon?» «Ho visto la sua tomba.»
Vittoria annuì, pur avendo ancora un'espressione preoccupata. «Che ora è?» Langdon guardò l'orologio. «Le sette e mezzo.» «È lontano il Pantheon?» «Un chilometro e mezzo circa. Abbiamo un po' di tempo.» «La poesia parla della tombaterrena di Santi. Che cosa vuol dire, secondo te?» Accelerando il passo, Langdon attraversò il cortile della Sentinella. «Terrena? Direi che a Roma non c'è posto più "terreno" del Pantheon, che prende il nome dall'antica religione che vi si praticava, il panteismo, il culto di tutti gli dèi e in particolar modo di quelli pagani della Madre Terra.»
Langdon era rimasto sconcertato nell'apprendere che la struttura del possente edificio circolare era un tributo a Gea, la dea della Terra: il Pantheon era infatti costruito in maniera tale da poter contenere una gigantesca sfera con un'approssimazione inferiore al millimetro. «Ho capito» disse Vittoria, in tono più convinto. «E il buco del demonio? "Dalla tomba terrena di Santi con il buco del demonio"? Che cos'è secondo te?» Langdon non era molto sicuro di quella parte. «Dev'essere un riferimento all'oculus»disse, facendo un ragionamento logico.
«La famosa apertura circolare nella cupola del Pantheon.» «Ma è una chiesa» disse Vittoria, camminando senza sforzo al suo fianco. «Che cosa c'entra il demonio?» Anche Langdon se lo era chiesto. Non aveva mai sentito parlare di "buco del demonio", ma ricordava le parole del Venerabile Beda che, nel VI secolo, aveva scritto che il buco nella cupola del Pantheon era stato fatto dai demoni mentre fuggivano dal tempio quando Bonifacio IV l'aveva consacrato.
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Questa mattina siamo andati, forse per la decima volta, ad ascoltare la messa del papa. È una specie di ricevimento della domenica alle Tuileries. Quando il papa sta in Vaticano la cerimonia si celebra nella cappella Sistina, quando sta al Quirinale nella cappella Paolina; la messa si ripete tutte le domeniche e negli altri giorni festivi, e il papa, quando sta bene, non vi manca mai. Il Giudizio universale di Michelangelo occupa tutta la parete di fondo della cappella Sistina, grande come una chiesa. Nei giorni di cappella papale contro questa parete vien messo un arazzo del Barroccio rappresentante l’Annunciazione; davanti all’arazzo vien sistemato l’altare. In Francia sicuramente non sì sarebbe tanto barbari. Il papa fa il suo ingresso dal fondo della cappella e si siede alla sinistra del pubblico, su una poltrona dallo schienale molto alto, un vero trono sormontato dal suo baldacchino. Nel 1827 l’Ingres ha esposto un quadretto che dava un’idea perfetta della cerimonia e della cappella Sistina.
Lungo il muro, a sinistra, siedono i cardinali, i vescovi e i preti, tutti vestiti di rosso. Di fronte al papa, a destra dello spettatore, prendono posto i cardinali-diaconi, che sono in numero limitatissimo. La messa papale è il grande appuntamento di tutti i cortigiani; anche una enorme quantità di frati ha diritto ad assistervi, ed essi approfittano lungamente della concessione. Sono i generali degli ordini, i "procuratori", i "provinciali", ecc. Tutti costoro son separati dal pubblico da una cancellata di noce alta cinque piedi. Per uno straniero intraprendente non è affatto difficile intavolare una conversazione con uno di loro. Se poi il turista vuol proprio divertirsi, cerchi di esternare al suo interlocutore una sfegatata ammirazione per i gesuiti: vedrà la maggior parte dei monaci, specialmente quelli vestiti di bianco come il cardinale Zurla, tradire immediatamente una vivissima antipatia per i discepoli di Loyola.
Tutte queste conversazioni si svolgono prima dell’inizio del servizio divino, mentre si attende l’arrivo del papa. Uno dopo l’altro arrivano i cardinali. A mano a mano che entrano nella cappella, ciascuno di loro va a genuflettersi su un inginocchiatoio sistemato davanti all’altare e per tre o quattro minuti rimane assorto nella più fervida preghiera: molti di loro compiono la cerimonia con molta dignità e compunzione. Fra i più devoti di questa mattina abbiamo notato il Gran Penitenziere cardinal Castiglioni e il bel cardinale Micara, generale dei cappuccini, che porta ancora la barba e l’abito del suo ordine, come tutti i cardinali che vengono dai frati, riconoscibili perché portano lo zucchetto rosso.
Fra i cortigiani abbiamo notato due frati elegantissimi, tutti vestiti di bianco. Son stati loro ad indicarci i cardinali a mano a mano che entravano nella cappella. La cura del vestire è di capitale importanza: i buoni monaci mostravano molta curiosità per le decorazioni e le croci e sembravano non apprezzare nessuno se non dall’abito.
25 dicembre 1828
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